Scipione Rizzuto medicus celebberimus

Il tempo è capace di rendere le memorie più fosche; la volontà addirittura di cancellarle. Ogni azione, tuttavia, lascia una traccia; un ricordo che vive nelle cose stesse e che di esse si alimenta.

É così, per esempio, che la fama di uomini ‘celeberrimi’ possa venire dimenticata per poi, dopo secoli, tornare alla luce.

La prima menzione del medico di Donnici, la si ritrova in Tommaso Aceti, nel 1737 (qui trovate l’opera integrale), il quale, appunto, lo cita come Medicus celebberimus ad nostra memoriam usque. La stessa notizia sarà ripresa, circa un secolo dopo da Andreotti (1869).

Nessuna altra informazione viene fornita sulla vita o l’opera del medico tanto famoso. 

Scipione Ricciuto o Rizzuto (il cognome viene traslato in entrambe le forme) fu dottore fisico (cioè medico) e visse a Donnici Soprani nella seconda metà del Seicento. Probabilmente nacque nello stesso villaggio, dove la sua famiglia è documentata almeno dalla metà del secolo precedente. Allo stato attuale delle ricerche non vengono menzionati altri medici nella sua famiglia mentre, diversamente, li si ritrovano nella famiglia di sua moglie. Scipione sposerà nel 1685 la magnifica Maria Ricciuti, figlia del medico Marco e di Maria bovino, entrambi di Aprigliano.

Dei Ricciuti Apriglianesi si è maggiormente documentati. Marco, tra gli altri, ebbe figli Antonio e Scipione, tutt’e due medici come il padre.  Sia questo Scipione che suo fratello Antonio non ebbero discendenti diretti. Il primo morì nel 1688, seguito a circa un anno di distanza dal fratello. La famiglia risiedeva nel rione di Guarno, in quartiere Lo Petraro e vicino la chiesa di Santa Maria di Loreto, alla quale Scipione lasciava un legato che sarebbe stato speso ad indorare la cappella dell’altare maggiore proprio titulo dell’oreto. Anche suo fratello Antonio dimostrò attenzione verso i luoghi pii di Aprigliano nominando eredi (quando la moglie sarebbe deceduta) la cappella delle anime del Purgatorio (nella chiesa di Santa Domenica) e quella del Santissimo Rosario (nella chiesa di Santa Maria di Loreto); alle stesse lasciò pure un castagneto e delle pecore affinché con la rendita ricavata ci si potesse occupare della manutenzione e riparazione delle stesse “acciò non si perdano come l’altre robe delle altre chiese”. Qualora la rendita non sarebbe stata necessaria, Antonio stabilì che il denaro ricavato dalla vendita dei beni stessi, venisse elargito a poveri secondo la Povertà.  Un occhio di riguardo venne riservato alla cappella gentilizia della famiglia in cui la stessa possedeva pure una propria sepoltura e dedicata a S. Francesco d’Assisi, all’interno della parrocchiale di Santa Domenica.

La casa di Antonio venne destinata dallo stesso a Ospedale atto ad accogliere i “peregrini che passano giornalmentedisponendo per le proprie esequie, un funerale spartano “con non più di due torcie che mi mettano scalzo et in gambe, con abito bianco, quam nudus exivi ex utero matris mea et nudus recertur“.

Il dottor Antonio lasciava poi “il suo studio, cioè tanto li libri di Medicina, come gli altri” al dottor Scipione Ricciuto suo cognato.

Scipione da Donnici, pertanto, ereditò lo studio del cognato Antonio, professando ancora l’attività per qualche decennio. Scarne restano le notizie sulla sua attività e ancora sulla sua morte (avvenuta, quest’ultima, tra il 1724 e il 1751). Dei suoi figli e discendenti nessuno ereditò la professione (diversamente per il ramo di Aprigliano dove Pietro, nato nel 1725 da Francesco – altro figlio di Marco – viene censito come medico nel catasto onciario del 1753).

Nel primo decennio dell’Ottocento, i discendenti di Scipione vivevano a Donnici Superiore in quartiere Conicella/Timparello. La casa, probabilmente ereditata dai propri antenati, passerà nello stesso periodo al sig. Domenico Pugliano.

L’unico ad essere menzionato con il titolo di dottore (benché non si conosca in quale disciplina) sarà un pronipote di Scipione, di nome Bruno Ricciuti. A causa di un grosso debito, Bruno fu costretto a fuggire in Sicilia, dove morì a Catania nel luglio del 1800, mentre i discendenti si trasferirono a Carolei, Cosenza e Santa Sofia d’Epiro adottando la forma cognominale Rizzuti.     

Il miracolo di S. Francesco a S. Fili

Era il 1754, 10 del mese di aprile, un mercoledì Santo, quando nella terra di San Feliciis, ovvero S. Fili, al sig. Antonio Gentile veniva concessa una grazia dal “Glorioso S. Francesco di Paola“.

Ben note sono le virtù taumaturgiche del Santo, al quale sono attribuiti miracoli sia durante il corso della sua vita, così come a seguito della sua morte. Il miracolo, questa volta, venne concesso al signor Antonio Gentile (figlio del defunto Gennaro), il quale moribondo, si trovava nei pressi della fontana dell’Irto di Grillo, in territorio di San Fili. Purtroppo non si conosce la causa che procurò la morte di Gentile, e né il motivo per cui si trovasse in quel luogo. Disteso a terra, “per la notoria disgrazia al medesimo sortitali”, e con una piaga che non gli avrebbe concesso molto altro tempo da vivere, decise così di rivolgersi e “invocare più volte” San Francesco affinché gli fosse elargito altro tempo per potersi confessare.

In cambio, Gentile avrebbe donato al Santo la somma di 100 ducati. Lungo la strada di ritorno per San Fili, i sacerdoti intervenuti, d. Giuseppe Calomeni, d. Francesco Scarnati e d. Saverio Rizzo riuscirono “più volte” a ricevere la confessione di Gentile. Per la Grazia ricevuta “mercè la potente intercessione del Santo”, Antonio Gentile ratificò il proprio voto, donando all’altare del Santo, eretto all’interno della Congregazione dello Spirito Santo, nella persona del Prefetto Domenico Majda, il denaro promesso.

Il miracolo che salvò Cosenza

Il terremoto del 1783 cambiò il volto della Calabria. La scossa (una tra le più potenti documentate nella storia d’Italia) rase al suolo città e villaggi modificando l’aspetto geografico, economico e sociale della regione. Sebbene il sisma interessò la parte più a sud, le scosse si sentirono fino a Cosenza e ben oltre.

Da una cronaca di circa un ventennio più tardi si legge che questo “tremendo castigo… avea già sconquassata, sconvolta, e rovinata la maggior parte della provincia di Ulteriore Calabria col diroccamento non solo di intere città, terre e casali ma col subissamento di monti, colline e financo pianure, molte delle quali, per essersi impedito il corso dei fiumi, si erano cambiati a grandi laghi, ed immensità di acqua stagnanti”.

Le scosse che ebbero inizio il 5 febbraio si udirono a Cosenza “in maniera tale che indicavano la totale distruzione della città e provincia”. Il popolo decise sin da subito di affidarsi alla protezione della “Madre Santissima del Pilerio” che già aveva salvato la città nei secoli passati “allorchè questa città era travagliata dal contagio della peste, poichè non pria ne fu liberata, che in questa Sacra Immagine, e propriamente in una delle sue gote, nella quale si vide il segno della peste, tuttavia esistente”.

Avvenne così che a seguito dell’inizio del sisma “videsi la sua miracolosa immagine piena tutta, e nella faccia e nel petto, di fissure ed aperture”, e considerando che la tavola lignea su cui l’immagine è dipinta era rimasta intatta, non presentando alcun segno di fessurazione, il prodigio venne da subito ritenuto un segno della Provvidenza Divina.

I governatori dell’epoca, il sindaco dei nobili – il barone Giuseppe Passalacqua – e l’eletto del Popolo – il dott. Saverio Manfredi – assieme al cappellano – il frate Canonico Amantea – decisero tuttavia di sottoporre l’immagine a un occhio esperto interpellando così i pittori presenti in città: Giuseppe Maradei, Domenico Oranges, e Pasquale Majo, i quali assieme al professor di pittura Francesco Antonio Trojano,  giudicarono l’evento soprannaturale poiché al contrario “se cosa naturale fusse stata per cagion del legno, le fissure doveano essere dritte, e non già serpeggiate come lo erano sopra la semplice pittura”.

  Icona della Madonna del Pilerio

La pittura venne quindi osservata da moltissimi cittadini – alcuni dei quali ancora presenti nella dichiarazione postuma del 1800 – i quali attestarono come “avendo fatto togliere il cristallo che cuopre tal sacra immagine, ed attentamente osservato il segno, su della quale è dipinta e le fissure e squarci che non oltrepassavano la pittura, e dopo aver la medesima strofinata con un faccioletto, per veder se tali fissure ed aperture erano nate dall’essersi distaccata la pittura del legno, niuno segno ne diedero, perchè la stessa stava forte e stabile, siccome ocularmente fu parimente veduto”.

Nonostante le scosse che colpirono la città furono violentissime “ed in specialità quella del 27 marzo 1783”, non si vide “crollare veruno edificio, e molto meno patire cittadino veruno, ed indi tali fissure col cessar del flagello sparirono ancora nell’immagine, ed infatti oggi si osserva senza verun segno e perfettamente rimarginata”.

Il miracolo si era compiuto; non restava pertanto che cristallizzarne l’accaduto in un documento ufficiale redatto da un notaio del posto, diversamente con quanto era occorso nel Seicento con “…l’altro miracolo in occasion del contagio, che per non essersene formate carte, o queste mal conservate e quindi smarrite, non se ne ha adesso che una semplice, abbenché costante, tradizione”.

“Acciocchè dunque di questo portentoso miracolo ne rimanga un valido monumento a questa città, ed affin d’infiammarsi maggiormente i cuori de’ cittadini tutti inverso di questa tal Gran Protettrice, e la divozione ed ossequio si diffonda e propaghi anche ai posteri”.

Mezzo secolo più tardi, la Vergine del Pilerio avrebbe nuovamente salvato Cosenza e i suoi cittadini da un altro sisma verificatosi in città il 12 febbraio 1854. Si decise da allora di festeggiare la patrona della città in quello stesso giorno.

Angelo Masci, curiosità e aneddoti nel secondo centenario della morte

Di Angelo Masci ne porta il nome una tra le principali arterie stradali di Santa Sofia. A lui è dedicata la locale biblioteca civica. Forse ancora poco se non si coglierà appieno la sua eredità: quella di un uomo battutosi per le proprie idee scagliandosi – pericolosamente – contro un sistema giudicato corrotto, contro la povertà (base di ogni male) ma riuscendo alla fine, a scardinare quello stesso sistema. 

Per apprezzare il lavoro di Masci è bene procedere in ordine, cercando quindi di far chiarezza su aspetti della sua biografia, attenendosi alle fonti archivistiche e abbandonando una storiografia Ottocentesca spesso densa di imprecisioni e incongruenze.

A tal proposito bisogna innanzitutto parlare della famiglia, che in effetti non era di Santa Sofia, ma neppure di San Giorgio Albanese – come sostenuto più volte. I Masci erano originari di Pedilati; piccolo casale posto a qualche chilometro da Santa Sofia e in cui la famiglia si era insediata sin dal proprio arrivo in Calabria dai Balcani. Abbandonando a metà del Cinquecento il villaggio di Pedilati (o Pedelati), i Masci e quasi tutte le altre famiglie ivi residenti (come i Russo, i Massaracchio o i Zamandà), si spostarono a Santa Sofia. I Masci tuttavia, ancora per un secolo, mantennero qualche legame con il loro villaggio; sino agli anni venti del Seicento, la famiglia continuò a disporre di una propria sepoltura nella piccola chiesa di Pedilati, a Santa Venere.

Nel XVII secolo gran parte della famiglia Masci aveva le proprie case nei pressi del palazzo dei Vescovi di Bisignano; grossomodo nella zona oggi compresa tra la piazza e via Angelo Masci. Da quello stesso secolo questa zona comincerà a essere denominata dapprima Lo Capo delli Masci, e in seguito Quartiere delli Masci.

Dalla seconda metà del Seicento, Antonio Masci (figlio del reverendo don Conte Masci, e nipote del nonno d. Antonio Masci; anche lui sacerdote e capitano del casale nel 1597) cominciò ad acquistare nel quartiere una serie di casupole, una confinante all’altra, e sulle quali si sarebbero innestate le fondamenta dell’attuale palazzo Fasanella-Masci. Fu in questa dimora che nel dicembre 1758 nacque Angelo. 

Veduta del Largo dei Masci (oggi via Angelo Masci) con scorcio del palazzo Fasanella-Masci in primo piano a destra.

Secondo Antonio Catalano, Angelo andò a Napoli a 12 anni, nel 1770. Qui verrà posto sotto la condotta dello zio materno d. Giuseppe Bugliari, cappellano del Reggimento Real Macedone nella città. La permanenza a Napoli in quegli anni particolari, così come i vincoli familiari che lo legavano a personalità riformiste e rivoluzionarie (primo fra tutti il cugino Pasquale Baffi, martire della rivoluzione Partenopea del 1799) dovettero plasmarne il carattere. Angelo Masci, in effetti, incarna pienamente la figura dell’intellettuale illuminista, e ciò emerge chiaramente dalla sua attività poliedrica. Tra il 1781 e il 1783 è ancora a Santa Sofia, quando da naturalista si cimenta in una relazione minuziosa e dettagliata, dei fenomeni accaduti in quel tempo nel suo paese prima e subito dopo il disastroso terremoto del 1783.

Negli anni Novanta di quel secolo iniziò la sua attività di legale occupandosi, perlopiù, di cause e contenziosi che riguardavano la proprietà terriera e il suo usufrutto. Ma il suo interesse maggiore si esplicò soprattutto nell’avversione verso un sistema feudale giudicato ormai desueto, in cui i diritti e i vantaggi di pochi baroni laici ed ecclesiastici «fan squallide le nostre Provincie» costringendo il popolo alla miseria. Tutto il suo pensiero progressista verrà condensato ed espresso in uno dei suoi più importanti scritti: Esame politico-legale de’ diritti, e delle prerogative de’ baroni, edito nel 1792; proprio cioè, quando il Regno di Napoli aderiva alla “I Coalizione Antifrancese”, volta a frenare e reprimere l’avanzata delle idee rivoluzionarie provenienti d’oltralpe. Quelle stesse idee di libertà e di uguaglianza trovano però largo spazio in quest’opera, in cui l’autore – in anticipo su altri più celebri scrittori cimentatisi sul tema – oltre a fornire uno spaccato realistico della società del tempo, denuncia apertamente le angherie e i soprusi, invocando e auspicando una riorganizzazione agraria la quale, però, sarebbe arrivata soltanto qualche decennio più tardi con le riforme napoleoniche. Un problema, quello collegato alla proprietà terriera, che doveva essere ben noto a Masci. Dal 1781 al 1787, Angelo aveva infatti affiancato il fratello Paolo nella conduzione di tutte le rendite della Mensa Vescovile di Bisignano, dovendosi quindi confrontare inevitabilmente con i contadini e con abusi e vessazioni che gli stessi erano costretti a sopportare.

Al fine di poter aiutare la popolazione a sfamarsi, negli stessi anni, Angelo proporrà di istituire a Santa Sofia un Monte frumentario.

Dal 1787 Angelo sarà poi enfiteuta dei beni della Badia di Santa Maria del Patire di Rossano, occupandosi della gestione di grandi fondi siti tra San Giorgio Albanese sino ad Amendolara.    

Grazie alle sue idee politiche, all’arrivo dei francesi nel Regno, nel 1809 Masci ottenne la nomina di Procuratore generale della Corte d’Appello. Soltanto un anno più tardi, nel 1810, venne incaricato assieme al fratello Paolo, Commissario Reale per le divisioni dei demani per le Province della Calabria Citeriore e per la Basilicata. Tale incarico può considerarsi come l’apice per la carriera di Masci e ciò trova testimonianza in una sua lettera rivolta al Ministro dell’Interno in cui, entusiasta,  dichiarava come «Finalmente queste infelici popolazioni vanno ad escitarsi dal lungo letargo in cui finora sono giaciute».

Nello stesso periodo Masci avrà modo di occuparsi di altri interessi, pubblicando il suo scritto più famoso: Discorso sull’origine, i costumi e lo stato attuale degli albanesi nel Regno di Napoli. Lo scritto venne pubblicato a Napoli nel 1847 dal pronipote di Angelo, il sig. Francesco Masci. Tuttavia sono probabilmente in pochi a sapere che lo scritto venne già pubblicato nel 1807 dallo stesso Angelo, e forse ancora meno, quelli a conoscenza che il suo Discorso fu pubblicato per la prima volta sul Giornale enciclopedico di Napoli di quell’anno, e in due puntate nei numeri 6 e 7 di giugno e luglio. Si tratta di un piccolo trattato di natura demoetnoantropologica, in cui l’autore descrive il popolo degli arbëreshë ripercorrendone la storia, evidenziandone il carattere e le consuetudini in uso tra loro, e fornendo addirittura definiti e peculiari tratti somatici.

Il suo interesse per la storia e in particolare per la storia della sua regione, trova sviluppo in un altro suo scritto poco noto, edito nel 1810. Il piccolo volume s’intitola Sulle vicende della tipografia Cosentina, e raccoglie tutte le opere (tutte quelle rinvenute da Masci) pubblicate a Cosenza dal 1478 al  1738.

Nel 1820, a sessantadue anni, Masci diventa Consigliere di Stato. Un anno dopo, forse temendo per la propria salute, farà testamento nominando erede suo fratello Paolo. Tuttavia, va precisato, come Angelo Masci non morì nel 1821 – come viene erroneamente riportato dalle cronache – e forse neppure per un colpo apoplettico (considerato che la causa della morte non compare nel suo certificato). A denunciarne la morte saranno il calabrese d. Celestino Pace (impiegato dell’Intendenza di Napoli) e il legale d. Francesco Pisgara di Napoli. Don Angelo Masci, ex procuratore Generale della Gran Corte Civile, morì nella sua casa a Napoli, sita in via San Sebastiano 16, alle ore Sette, del 18 agosto 1822. Il 18 agosto di sedici anni prima era stato fatale per lo zio di Angelo, il vescovo greco Francesco Bugliari, assassinato in quello stesso giorno nel 1806; ma questa è un’altra storia…

Atto di morte di Angelo Masci

Giuseppe Baffa, in memoria del prof. Marino Baffa

(articolo pubblicato su: Dita Jote, maggio 2022)

Sul sistema difensivo delle torri di guardia nella costa tirrenica in provincia di Cosenza

La riscoperta di documenti, ritenuti di scarso interesse per più secoli e poi ritrovati è un fatto che accade con molta più frequenza di quanto si possa immaginare. Per quanto oggi la pratica possa sembrare – e a ragione – decisamente esecrabile, fino a qualche secolo fa era abbastanza d’uso, per ragioni perlopiù economiche, riutilizzare antichi documenti di epoche passate al fine di realizzare copertine per nuovi registri e volumi.

Antifonario su pergamena custodito
presso l’Archivio di Stato di Cosenza

Molte delle 1208 pergamene custodite presso l’Archivio di Stato di Cosenza, e che coprono uno spazio temporale di cinque secoli, tra i secc. XIV e XIX, sono state recuperate proprio dalle legature di protocolli notarili e contengono al loro interno, nella quasi totalità[1], atti di compravendita, testamenti e tavole nuziali, utili perlopiù nella ricostruzione e nelle indagini di microstoria della realtà locale nella provincia di Cosenza.  

In questo caso il ritrovamento è stato fortuito, occorso nel luglio del 2020, durante la fase del mio tirocinio promosso dalla Regione Calabria d’intesa con il Segretariato Regionale del Ministero dei Beni e delle attività Culturali e del Turismo per la Calabria.

Il documento rinvenuto formava la controguardia incollata alla coperta del protocollo relativo all’anno 1728 del notaio Giuseppe Turano della piazza di Celico. Leggibile soltanto nella parte centrale si è comunque intuito che il carteggio potesse contenere interessanti informazioni dal punto di vista storico oltreché archivistico. Consultato le archiviste del locale istituto, Francesca Maiorano e Lucia Chinigò, si è così deciso in accordo di far staccare il pezzo per meglio facilitarne la lettura. Si è quindi consegnato il protocollo al restauratore Giuseppe De Rose, del laboratorio di restauro interno all’Archivio, il quale ha poi proceduto alle operazioni richieste dal caso; limitate al distacco del pezzo e a un lieve reintegro con carta giapponese delle parti usurate o del tutto mancanti.

In attesa delle operazioni di restauro si è deciso altresì di fare una rapida ricognizione su tutti i protocolli del notaio Turano, rinvenendo così una preziosa carta[2] relativa al catasto onciario di Cosenza e mancante nell’originale.

Chiostro dell’Archivio di Stato di Cosenza

Tornando al pezzo oggetto di discussione, esso si compone di 2 fogli piegati su se stessi e scritti su 7 facciate (l’ultima è lasciata bianca). I primi sei fogli sono ripartiti ciascuno in una tabella costituita da 8 colonne verticali. Le voci all’interno della tabella sono, nell’ordine, le seguenti:

«Nomi delle città e terre, Distanza che tengono sino alla Marina (misurata in Passi), Posti di guardia che ogni città e tr̅a tiene, Persone che assistono di guardia, Paga diaria alle guardie, Distanza da un posto all’altro, Passi, R. torri».

L’intento della tabella, così come dell’intero documento, è ben spiegato all’inizio dello stesso:

«Relazione di tutte le città e terre delle Marine del Cordone del mio carico dal Golfo di S.ta Eufemia fino al Capo del Cedraro, distanza che tengono fino alla Marina, numero de posti, persone che assistono di Guardia, paga diaria, distanza da un posto all’altro, e numero de passi».

Purtroppo chi ha redatto il manoscritto non ha lasciato la sua firma, né compaiono altri nomi o viene fatto alcun accenno a una data. Dalla scrittura, tuttavia, lo si potrebbe facilmente ascrivere al XVIII secolo.

Va da sé l’importanza intrinseca del documento che oltre a mostrare dati più prettamente tecnici – utili per lo studio di queste fortificazioni[3] – fornisce uno spaccato della società del tempo e un nuovo tassello utile alla ricostruzione della storia regionale.

Torre della Principessa a Campora San Giovanni

Le città e terre poste sotto il controllo di questo cordone di guardia (cordone di un’estensione complessiva, da Cetraro a S. Eufemia, di miglia trentanove, passi n. 312) erano 29: S. Eufemia, S. Biase, Zangarona, Nicastro, Miglierina, Amato, Gizzeria, Feroleto, Serrastretta, Castiglione (oggi Castiglione Marittimo), Falerna, Nocera (oggi Nocera Terinese), Savuto, Pietramala (oggi Cleto), Terrati, Serra (oggi Serra D’aiello), Aiello (oggi Aiello Calabro), Lago, S. Pietro (oggi S. Pietro in Amantea), Amantea, Belmonte (oggi Belmonte Calabro), Longobardi, Fiumefreddo (oggi Fiumefreddo Bruzio), Falconara (oggi Falconara Albanese), S. Lucido, Paola, Fuscaldo, Guardia (oggi Guardia Piemontese), Cetraro.

Quattordici di queste erano sede di deputazione[4], ossia luoghi in cui altrettanti Deputati civili (cioè dei soprintendenti) erano dislocati assieme ai militari per pattugliare e garantire l’ordine nel proprio dipartimento.

Per alcune di esse viene fornita una denominazione. Avremmo così torre Santa Caterina (a S. Eufemia), Spinito (a Gizzeria), Della Rupe (a Falerna), Della Pietra La Nave e Bocca di Savuto (a Nocera), S. Giovanni Coracha e Barbarese (ad Amantea), Santi Quaranta (a Longobardi) e La Mesa Diruta (a Fiumefreddo).

L’intero cordone era poi costituito da 195 posti di guardia distanti l’uno dall’altro da un minimo di 49 passi a un massimo di 510 (da Castiglione a Falerna). I dati forniti in questa parte della tabella si dimostrano interessanti per conoscere in quale luogo e a quale distanza fossero dislocate le persone addette al servizio di guardia, fornendo ulteriori dati alla ricerca sullo studio del sistema difensivo fornito dalle torri costiere del Regno di Napoli, che, come si apprende, erano solo le principali piazzeforti di un sistema di difesa ben più ampio e organizzato. 

Ogni posto di guardia veniva pattugliato da due persone (per un totale quindi di 390 militari) che si davano il cambio ogni ventiquattro ore, mantenendo così le postazioni sempre guarnite. Ogni terra e città aveva un numero variabile di avamposti da 1 sino a 21 (per Paola). 

La paga diaria delle guardie era di un carlino al giorno per due guardie in chiascheduno posto.


[1] Lo studio del contenuto di queste pergamene ha fornito altresì importanti fonti di indagine anche su diversi e importanti argomenti. Si veda ad esempio: VINCENZO MARIA EGIDI, Una bolla pontificia nel r. Archivio provinciale di Stato di Cosenza, in Studi Storici ed archivistici. Omaggio degli Archivi provinciali di Stato al comm. Antonio Tripepi,Teramo 1938, pp.151-159 ; ID., Un processo politico istruito in Cosenza nel 1463, in «Bollettino della società di storia patria per la Calabria», I , 1944, pp.6-12; ID., Pergamene nella Sezione di Archivio di Stato di Cosenza,  in «Calabria nobilissima», II, 1948, pp.121-127, III, 1949, pp.277-282, V, 1951, pp.145-151.

[2] Il foglio, relativo alla sezione dei «forestieri abitanti nella città», era stato riutilizzato come copertina per il protocollo notarile dell’anno 1724. Proceduto con il distacco e con una lieve pulitura, il documento è stato inserito sciolto tra le pagine del catasto onciario di Cosenza custodito presso lo stesso Archivio. Altri fogli cartacei vennero tagliati e utilizzati per la creazione delle copertine relative agli anni 1715 – 1718. Ricomponendo le copertine, il foglio che ritornava alla sua integrità conteneva la seguente dicitura latina: Franciscus Antonius Cavalcanti Miseratione Divina Archiep.s Consen:us / Et Pontificio Solio Assistens Clericorum Regularium Expraepositus Generalis./ Dilectis Filiis Universitatis Consentia, coeterisque Officialibus Domus Hospitalis SS:ma Annunciata Extra / Muros ejusdem, Salutem in Domino Sempiternam. / Vix limina nostra erectionis ad hanc Metropolitanam Consentiam Sedem salutavimus, ut peculiaribus charitatis Argumentis nostram Patriam prosequi in votis habuimus, quo simul Pasto:/ ris, et Concivis partes exolveremus: Haec sane Regnantis Supremi Pontificis Benedicti XIV. Vide licet.

[3] Per una lettura d’insieme sul tema  si rinvia a: RICCARDO CISTERNINO, Torri costiere e torrieri del Regno di Napoli (1521-1806), Istituto Italiano dei Castelli, Roma 1977; VITTORIO FAGLIA, La difesa anticorsara in Italia dal XVI secolo: le torri costiere, gli edifici rurali fortificati, Istituto Italiano dei Castelli, Roma 1974; ID, Tipologia delle torri costiere nel Regno di Napoli, Istituto Italiano dei Castelli, Roma 1975; ID., Tipologia delle torri costiere di avvistamento e segnalazione in Calabria Citra e in Calabria Ultra dal XII secolo, Istituto Italiano dei Castelli, Roma 1984;  MIRELLA MAFRICI, La difesa delle coste meridionali nei secoli XVI-XVII: tecnici e tecnologie, in «Annali del Centro Studi Antonio Genovesi» I, 1988, pp. 31-106; GUSTAVO VALENTE, Le torri costiere in Calabria, Edizioni Frama’s, Chiaravalle 1972; STEFANO VECCHIONE, Calabria. Torri e castelli tra mare e cielo. Conquiste saracene e difesa dell’identità, Regione Calabria, Camigliatello Silano 2004; ID.,Castelli e torri costiere della Calabria, Regione Calabria, Camigliatello Silano 2008.

[4] S.ta Eufemia e S.a Biase (sede unica), e poi Nicastro, Gizzeria, Castiglione, Nocera, Amantea, Belmonte, Longobardi, Fiumefreddo, S. Lucido, Paola, Fuscaldo, Guardia, Cedraro.

La chiesa di San Demetrio “da spelonca a tempio di Dio”

Sono trascorsi due secoli da quando, nel 1861, la chiesa dedicata a San Demetrio, sita nell’omonima comunità italo-albanese,  subì un importante e impegnativo rifacimento dovuto, principalmente, a una rocambolesca vicenda che interessò lo stesso edificio soltanto pochi anni prima.

Ph: Lorenzo Coscarella

Da come si apprende, tuttavia, già nel decennio precedente la chiesa versava in condizioni estremamente precarie. Nel 1850, ad esempio, la Congregazione del Suffragio annessa alla chiesa “ebbe a diroccarsi per vetustità e per manutenzione”. Stessa sorte era toccata, nel 1852, alla copertura della cappella del Rosario (anche se in quell’occasione si era posto riparo grazie all’opera e alle donazioni dei fedeli).

A metà dell’Ottocento, il tetto della navata grondava acqua e minacciava di crollare. Il pavimento era totalmente da rifare, a causa dei miasmi maleodoranti che fuoriuscivano dalle sepolture e che costringevano la popolazione ad astenersi dalle funzioni, specialmente in estate. Le porte erano logore. La sacrestia messa peggio della chiesa. I finestroni “senza riparo alcuno”. Per dirla con le parole dei periti, la chiesa “è ridotta nell’ultimo estremo”.

Si dispose così, nel 1856, l’inizio dei lavori di recupero dell’intero fabbricato. Su mandato dell’Intendente venne nominato l’architetto Domenico Acri, da Rossano, mentre ad occuparsi materialmente dei lavori in qualità di direttore, venne scelto il “Capo d’arte” Tommaso Clausi. I lavori avrebbero interessato tutta la struttura sia all’interno che all’esterno. Gli interventi di maggior portata prevedevano la copertura della chiesa, il rinforzo delle pareti, l’incatenamento delle mura stesse “in corrispondenza dell’orchestro e sopra l’altare maggiore”; pilastrino di ordine “toscano” sui pilastri rettangolari della navata, e ancora cornicioni esterni con doppia file di tegole, colonne tuscaniche realizzate in mattoni sulle pareti, lamia alla siciliana  a due coppie di mattoni per la navata centrale e rivestimento a “mattonelle alla siciliana di figura semiellittica”.

Riguardo alle sepolture veniva predisposto di otturarne ben 24 e lasciandone quindi solo le 3 “posizionate sotto l’orchestro”. Per quanto riguarda invece i lavori nella navata destra, non vennero fatte stime, dato che i lavori in essa sarebbero stati a carico delle famiglie che possedevano il patronato nelle cappelle ivi esistenti. Venne pure previsto l’allargamento delle due cappelle della SS. Annunziata e del Carmine per adeguarle in simmetria alla cappella di San Demetrio. Per esse veniva previsto un cupolone di forma ottagonale simile a quello della cappella di San Demetrio, un altare in mattoni ricoperto in stucco (simile anche questo a quello della cappella vicina), e per ultimo un quadro con l’immagine dell’Immacolata del Pinelli.

Interno della chiesa. Ph: Lorenzo Coscarella

Fu pertanto dato inizio ai lavori nel 1859, e già nel 1860 vennero portati a termine. Purtroppo però, da quanto si legge, sia l’architetto che il capo dei lavori, non furono in grado di valutare se la nuova fabbrica, costruita sulla vecchia, avrebbe retto il peso di “10 palmi di muratura” aggiunti. E così, non  appena i lavori vennero ultimati, la maggior parte degli archi e delle colonne costruite, precipitarono rovinosamente. Disperati, i decurioni di San Demetrio, dopo aver speso inutilmente 800 ducati e senza più denaro in cassa, si appellarono al Governo centrale, affinché intervenisse e stanziasse il denaro necessario ” acciò non si perda il culto e la devozione  o forse anche la Fede“.

Fortunatamente le preghiere degli amministratori furono accolte e così, nel 1861, venne assegnato un nuovo incarico al perito Giuseppe Rugiero, e quindi l’inizio di nuovi lavori, molti dei quali ancora oggi visibili nella chiesa. Rugiero fece innanzitutto notare lo stato rovinoso dell’edificio e l’urgente condizione di cambiare il suo aspetto “di spelonca, qual è, a Tempio di Dio“. Il perito sottolineò come i pilastri della navata vennero posti “senza una catena di fabbrica nel fondamento, e senza sprofondare lo stesso al di sotto delle sepolture vicine”. Privi di piede e senza contrasti tra loro, non avrebbero potuto reggere la copertura, la quale, in effetti, era poi crollata. La parte scampata al crollo era stata invece puntellata per scongiurarne la caduta. Tuttavia, per le profonde lesioni riportate, anche questa si sarebbe dovuta abbattere per poterne ricostruire sulla stessa base, la nuova fabbrica. Bisognava quindi procedere con le demolizioni delle parti lesionate, di una porzione di tetto e di ciò che rimaneva dei basamenti dei vecchi pilastri “senza ordine e regolarità” per predisporre le fondamenta su cui innalzare “un intercolunnio di ordine Jonico“. Per il pavimento vennero invece previste basole di “pietra arenaria dura di Fuscaldo“.

In dettaglio si procedette alla stima della componente decorativa (su quanto dovessero misurare cornici, cimase e architravi, e su come sarebbero stati realizzati) e che dimostra le conoscenze dell’arte e la perizia di Rugiero:   “Architrave ornato di una gola a rovescio e di un pianetto” o ancora  “Fregio e cornice ornata di una gola rovescia, due gocciolatoi e quattro listelli”.

Per ciò che concerne ancora il coro, il perito intendeva regolarizzarne la forma semiottagonale prevedendo inoltre, per la sua copertura, una volta in legno a cassettoni. Pure in legname, era stata predisposta la volta della navata, mentre cornici avrebbero inquadrato i finestroni semicircolari e il rosone nella parte interna. L’altare maggiore infine sarebbe stato eseguito “a stucco lucido, con coloriti imitanti il vero marmo“.

I Siscara, patrizi napoletani nella badia di Sant’Adriano dimoranti in Bisignano

Per circa un secolo, almeno a partire dal 1503, la ricchezza del monastero di Sant’Adriano, a San Demetrio Corone (CS), venne controllata dai Siscar o Siscara. Famiglia di origine spagnola, si stabilì nel Regno di Napoli con Francesco, nominato primo conte di Aiello nel 1463.

A partire dal 26 maggio del mentovato 1503, sarebbe stato nominato abate commendatario di Sant’Adriano, il rev. d. Giovanni Pietro Siscara, il quale, ancora nel 1560, risultava essere presente come “perpetuo usufruttuario delle entrate”. A quella data, tuttavia, l’abate commendatario in carica risultava essere il rev. Marco Antonio Siscara (benché le genealogie sulla famiglia riportino il nome di don Bartolomeo Siscar, subentrato nel ruolo di abate, alla morte dello zio Giovanni Pietro).

In quegli anni, dal 1549 al 1560, tutta l’amministrazione  delle entrate, rendite, proventi ed emolumenti di detto monastero e sue grancie; così come pure del patrimonio personale della famiglia, era stata affidata al rev. Giovanni Paolo Marino, della città di Bisignano, eletto a vicario luogotenente e procuratore dei Siscara. Verificati i conti e trovati in regola, i Siscara con Marino decisero così di concludere il loro accordo, dichiarando altresì Marino, di essere stato integralmente soddisfatto dai Siscara per il suo salario e per le “centinara e centinara de docati”, in grano e denari (lo stesso Marino parla di cifre difformi: 300, 400 o forse 1000 ducati), spesi per la gestione del monastero e per gli affari della famiglia. A Marino venne ancora concesso di percepire i frutti e le rendite dell’anno in corso, provenienti dalla grancia di Bisignano, che il monastero possedeva in quel territorio.

La cosiddetta “Grancia di Bisignano” faceva parte dei beni – e quindi delle rendite – del venerabile monastero ed era appannaggio degli abati commendatari (i Siscara); diversamente da altre rendite sulle quali era invece beneficiaria la Badia e sulle quali aveva giurisdizione il priore della stessa. Tornando alla grancia, essa consisteva in un ampio appezzamento nel territorio di Bisignano, dalla quale il monastero percepiva rendite ricavate da censi, erbaggi, terraggi, etc. Al fine di poter meglio amministrare tali rendite, il monastero era solito “affittare” la grancia stessa a uno o più appaltatori che ne avrebbero curato e incamerato i profitti, in cambio del pagamento al monastero di un canone annuo. I contratti di affitto erano in genere triennali con possibilità di rinnovo alla scadenza.  Nel 1565, a titolo di esempio, si aggiudicò l’affitto triennale della grancia, tramite asta per candela, il nobile Carlo Trentacapilli da Bisignano.

Chiesa di Sant’Adriano a San Demetrio Corone

Il nuovo amministratore dei Siscara in questi anni, e almeno per tutto il successivo decennio, sarà il nobile Richisenso de Lavorata, da Acri.

Dal 1587 al 1616, fu abate commendatario di Sant’Adriano un altro esponente della famiglia Siscara, ovvero d. Indico Siscara (forma italianizzata dello spagnolo Iñigo). Dottore in legge, fu figlio di Vincenzo (pronipote dell’abate Giovanni Pietro) e amministrò il monastero sino al 1616, quando venne nominato vescovo di Anglona-Tursi; carica che esercitò sino alla morte avvenuta nell’anno 1619.

Con il nuovo secolo, da San Demetrio la famiglia spostò i propri interessi verso la vicina città di Bisignano. Nel 1615 don Antonio Siscara, patrizio napoletano, risiedeva in quella città. In quell’anno d. Antonio veniva nominato procuratore del fratello dimorante nella vicina Acri e per il quale doveva recuperare ben 3958 ducati, per seta venduta a tale Luca Bonocore (cittadino di Bisignano) nel paese di San Demetrio; un debito che sarebbe dovuto essere estinto durante la fiera di Sant’Adriano (in San Demetrio) già dal 1614.

Negli stessi anni, nel 1617, la presenza dei Siscara è ancora documentata nella zona. Antonino seu Antonello Gallo di Cosenza, dimorante nel casale di Santa Sofia, vedovo di Livia Siscara, faceva donazione a Beatrice Siscara di case, fabbricate et palazziate, sia ad Acri che a Pietramala (l’odierna Cleto dove i Siscara erano baroni dal 1465).

Tornando a d. Antonio Siscara, il suo insediamento a Bisignano è ufficialmente attestato dal 1621 con l’acquisto di una casa nel rione Santa Croce. Dagli atti risulta che Antonio avesse dapprima dimorato a San Demetrio, e in base agli anni, potrebbe identificarsi con lo stesso Antonio Siscara, figlio di Giovan Battista, che ad oggi le genealogie danno come morto in giovane età, per il solo fatto che non si siano rinvenuti documenti che lo riguardassero. Se così fosse, Antonio potrebbe aver raggiunto Indico (cugino di suo padre) a San Demetrio, stabilendosi con casa e famiglia a Bisignano in seguito alla partenza dell’abate. La presenza di un ramo di questa famiglia “proveniente da Napoli“, a Bisignano, resta comunque documentata per tutto il resto del secolo. Antonio ebbe di certo due figlie, chiamate Elisabetta e Maria. Quest’ultima sposò Leonardo Manna (della stessa città di Bisignano) dal quale ebbe Diana e Francesca Manna (quasi certamente maritata a Francesco Loise di Tommaso; ancora di Bisignano). Tra la prole di Antonio vi fu di certo pure un figlio maschio, padre di d. Domenico Siscara il quale visse a Bisignano, non più a Santa Croce ma nel rione San Pietro, dove la famiglia si era stabilita già con Antonio, nel 1632.

Negli anni 60 del XVII sec., sono ancora attestati a Bisignano i chierici Carlo e Giovan Domenico Siscara, entrambi in stretti rapporti con la famiglia Montalto di Bisignano. Carlo fu infatti cognato di Francesco Montalto (padre di Lucantonio, Isidoro e Salvatore Montalto), mentre il secondo venne finanziato da tale Isidoro Montalto per la costituzione del proprio sacro patrimonio.

Vengono ancora documentati negli anni 80 di quel secolo, i succitati Elisabetta e Domenico Siscara (zia e nipote) i quali vendevano a d. Francesco Loise di Tommaso, una casa palazziata, pervenuta ad Elisabetta da sua nipote Francesca Manna.

La digitalizzazione dei frontespizi nel fondo antico della biblioteca civica di Santa Sofia d’Epiro (CS)

Le foto di quest’album raccolgono i frontespizi di tutti i volumi presenti nel fondo antico (mai inventariato) della biblioteca civica “Angelo Masci”, di Santa Sofia d’Epiro (CS).

Tutto il lavoro è stato svolto a febbraio del 2016 nel corso di una mia attività volontaria prestata presso la locale biblioteca. Quando decisi di “inventariare”, fotografando, l’intero corpus costituente il fondo antico, la volontà era quella di ordinare e tutelare digitalizzandolo, tutto il vasto patrimonio. Il presente lavoro non aveva quindi, in origine, un intento divulgativo (il quale si è reso oggi necessario in attesa di un inserimento a catalogo dei volumi), pertanto la risoluzione di alcune foto potrebbe risultare bassa e con scarsa nitidezza. Tuttavia, al fine di poter mettere a conoscenza e a disposizione degli utenti, degli appassionati e studiosi, la raccolta di volumi conservati presso la biblioteca, ho preferito pubblicare ugualmente le foto di ogni testo repertato.    

Si tratta di circa un migliaio di testi, ai quali vanno a sommarsi altri volumi antichi, già presenti in biblioteca o riuniti in altre collezioni (come ad esempio la serie di testi di Vincenzo Padula, nel fondo “Angelo Bugliari”) e rimasti fuori da questo lavoro di inventario.

Laddove copertina o frontespizio sono risultati assenti, è stato riprodotto l’indice (se presente) o l’incipit ai capitoli, piuttosto che qualsiasi altra annotazione che potesse fornire indicazioni utili all’identificazione dell’opera e/o dell’autore.

Oltre ai libri sono presenti nel fondo periodici, almanacchi, bollettini, etc., che sono stati pure fotografati nel rispetto dell’integrità del fondo stesso.

Quando possibile sono stati riuniti i volumi che compongono una medesima opera, così come i fascicoli appartenenti a una stessa collana (sebbene nel fondo siano collocati in ordine sparso).

Alcune delle opere costituite nella forma integrale da due o più volumi, oggi risultano essere monche di uno o più tomi.

Relativamente al fondo antico si possono reperire altre informazioni in un mio precedente articolo:

Un tesoro di carta: il fondo antico della “Biblioteca civica Angelo Masci”

Link all’album:

https://www.facebook.com/pg/ladripolvere/photos/?tab=album&album_id=838902092980446

Aggiornamento del 17 febbraio 2018:

A meno di 24 ore dalla pubblicazione online del frontespizio dei volumi della biblioteca civica “Angelo Masci”, arrivano i primi risultati. Pubblico la segnalazione fattami privatamente da Tommaso Misiano.
“I miei complimenti per l’impegno e il lodevole lavoro, so quanto sia difficoltoso maneggiare libri e documenti spesso mal ridotti e fortemente danneggiati da muffe, polvere e insetti. Forse il danno più grande è causato dall’incuria, ma il fatto di aver dato la tua attenzione a questa raccolta, infonde la speranza che siano tornati a nuova vita. La ricerca, l’attenzione e la lettura sono l’anima del libro, che altrimenti sarebbe un oggetto inanimato posato su uno scaffale. Ho dato una veloce occhiata a queste foto alcuni libri sono mutili del frontespizio, ma si possono ricavare i dati attraverso un altro tipo di ricerca (segnatura, impronta, etc), ma è necessario consultare il volume. Mi permetto di farti la segnalazione di qualche libro raro di questa raccolta, avendo consultato il Sistema Bibliotecario Nazionale, che è presente online. “Ton en agiois pateron emon Basileioy” stampato a Patavii (Padova) nel 1687, di cui è censito un solo esemplare. “Aphorismi r.p. Thomae Sanchez de matrimonio” stampato ad Audomani (Francia) nel 1621. Anche di questo è censito un solo esemplare”.

Questo a testimonianza di come, anche le piccole biblioteche di paese, possano celare tesori inaspettati. Grazie a Tommaso Misiano e a tutti i lettori.

Di seguito le immagini dei testi a cui fa riferimento la segnalazione e il link di rimando alla loro scheda tecnica presente nel catalogo SBN.

http://opac.sbn.it/bid/UM1E027005

http://opac.sbn.it/bid/PUVE023945